Un lucido e spietato reportage del Wall Street Journal ci toglie ogni dubbio sulle ragioni del mancato accordo su Gaza.

Il leader di Hamas, Yahya Sinwar, in un carteggio rimasto finora segreto, con i suoi più stretti collaboratori e delegati alla trattativa con gli israeliani, ci fornisce, senza volerlo probabilmente, la sua strategia nei confronti di Israele.

I giornalisti del Wall Street Journal sono riusciti a recuperare un nutrito scambio di messaggi tra il leader di Hamas e i suoi fidi nei quali si approfondiscono il perimetro e il contenuto di una trattativa che … non deve andare in porto!

La pubblicazione dei suoi messaggi, inviati, come dicevamo, al suo team impegnato a Doha, in Qatar, a negoziare con la controparte, davanti agli intermediari internazionali, facilitatori del dialogo, ci consente di comprendere come “Il sangue versato a Gaza alimenta la causa palestinese e fa sopravvivere proprio Hamas”

Abbiamo voluto citare letteralmente la dichiarazione di Sinwar per la sua tremenda e allucinante chiarezza.

Come vedremo, tutto lo scambio di messaggi è improntato ad una tattica negoziale che mira da un lato a dichiarare in linea di principio una disponibilità al cessate il fuoco ma poi, nella sostanza, a creare ogni volta, di fronte alle numerose proposte di tregua, promosse anche dal Segretario di Stato americano Antony Blinken, dei cavilli che rendono impossibile la chiusura della trattativa, aprendo, ogni volta, nuovi fronti o nuove controproposte manifestatamente inaccettabili per la controparte.

Probabilmente una condotta negoziale analoga, per molti osservatori, a quella del team di Netanyahu che apparentemente e saltuariamente si dimostra anche possibilista su un dialogo ma poi, per calcolo politico e cinismo, trova sempre lo spunto per dichiarare l’impossibilità di un accordo con una controparte che mira soltanto alla sua sopravvivenza.

Ma vediamo cosa emerge dal reportage del Wall Street Journal.

Sinwar paragona il sacrificio della popolazione palestinese a quella degli algerini durante la guerra di indipendenza contro la Francia, sottolineando proprio quanto abbiamo già citato prima “Il sangue versato alimenta la causa palestinese e garantisce la nostra sopravvivenza”

D’altronde il culto cieco del martirio è un denominatore comune tra tutti i leader del movimento: lo stesso Sinwar cita spesso la morte dei figli di Ismail Haniyeh, il capo politico di Hamas attualmente esiliato a Doha.

Proprio l’assassinio dei figli di Haniyeh ha “infuso – secondo Sinwar – linfa vitale nelle vene della nazione palestinese, spingendola a risorgere e a raggiungere la gloria e l’onore”.

Ogni commento ci sembra superfluo nel fanatismo irrazionale nelle parole del leader di Hamas.

Per mesi lo stesso ha continuato a dare istruzioni ai suoi delegati nella trattativa dicendo chiaramente che non aveva alcun interesse a raggiungere il cessate il fuoco anche quando, alla fine dello scorso febbraio, i suoi fidi hanno cercato di convincerlo ad una pausa delle ostilità di fronte alla minaccia israeliana di entrare con l’esercito a Rafah.

Anche in quella occasione Sinwar ripeté le stesse istruzioni: i massacri di Gaza, condannati da tutto il mondo, avrebbero aiutato Hamas molto di più che non la fine dei combattimenti

Se ci pensiamo un attimo sembra esattamente la stessa, identica posizione ideologica e negoziale del governo nazionalista di Netanyahu. Due estremismi che, a specchio, e a prescindere dagli interessi dei loro popoli, si combattono non volendo prendere in considerazione alcuna ipotesi di pace perché essa significherebbe la loro scomparsa.

Ma cosa ne pensano i palestinesi della posizione del leader di Hamas e della sua rigida e rigorosa opinione negativa di fronte a qualsiasi tipo di pacificazione?

Ci aiuta a capirlo un coraggioso sondaggista di 71 anni, rappresentante dell’unica società di indagini di  mercato operante in Cisgiordania: stiamo parlando del Palestinian Center for Policy, diretto da Khalil Shikaki.

Nonostante le continue minacce e le continue pressioni perché chiuda la sua attività, Shikaki rimane al suo posto, a Ramallah, unica voce neutrale nella disastrosa situazione dei territori palestinesi.

Il suo è un lavoro indispensabile, soprattutto dopo il 7 di ottobre per capire la vera opinione del popolo palestinese che sta subendo una delle più atroci tragedie della sua … recente storia.

Shikaki è l’interlocutore di tutta la stampa internazionale e viene invitato in diversi think tank a rappresentare lo spirito e l’opinione dei cittadini della Cisgiordania: “una bussola di cui non potremmo fare a meno” lo ha definito il New York Times.

L’ultimo sondaggio pubblicato a fine aprile scorso ci fornisce un quadro piuttosto interessante della situazione: l’attacco del 7 ottobre continua ad avere il supporto del 71% dei palestinesi; il 93% del campione intervistato non crede che Hamas abbia compiuto le atrocità di cui è accusato.

Ne vede un aspetto positivo e cioè che grazie al blitz degli uomini di Hamas del 7 di ottobre, la Palestina è tornata al centro dell’attenzione internazionale.

I dati risultanti dall’indagine, mostrano poi una relazione fra il numero dei morti a Gaza e il sostegno ad Hamas: più vittime ci sono più aumenta il sostegno alla sigla di Sinwar.

Il 78% degli intervistati ha dichiarato di aver perso un famigliare: ogni vittima è una conquista per la sopravvivenza di Hamas.

Shikaki non pensa però che questa situazione sia destinata a durare.

Solo il 20% dei palestinesi condivide la posizione ideologica di Hamas: lo appoggia solo perché è l’unico soggetto che si batte per la causa palestinese.

E qui si apre un punto fondamentale per la soluzione della crisi medio orientale: se ci fosse una alternativa seria, i palestinesi lo abbandonerebbero immediatamente.

Ma al momento l’ipotesi è remota: il consenso al presidente Abbas è sceso al 16%. Se si votasse oggi, il 40% dei palestinesi voterebbe per Marwan, Barghouti, il leader laico in prigione in Israele da 22 anni; il 23% voterebbe Ismail Haniyeh (il capo politico di Hamas) e soltanto l’8% dei voti andrebbe ad Abbas.

La stragrande maggioranza dei palestinesi intervistati dall’istituto diretto da Shikaki chiede all’attuale leadership del movimento di dimettersi e di presentare nuovi candidati più giovani, più autorevoli, più visionari.

Tutti gli uomini del governo palestinese – dice con una punta di orgoglio Shikaki – ogni volta che esce un sondaggio vengono a minacciarmi perché emerge la chiara sfiducia del popolo palestinese nei loro confronti”.

A maggior ragione, come dovrebbe succedere anche in Israele, la soluzione del problema medio orientale risiede proprio nel cambiamento e rinnovamento delle attuali classi dirigenti sia del governo israeliano sia del governo palestinese: tale cambiamento però potrà avvenire (e abbiamo visto che anche nel mondo palestinese ci sarebbero i candidati alternativi per una “ripartenza”) se il popolo israeliano e il popolo palestinese partecipassero concretamente alla vita politica; esercitassero il loro diritto di elettori; in maggioranza mandassero “a casa” gli attuali, disastrosi, leader al comando.

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