Come si è già avuto modo di osservare in vari articoli presenti su Pickett, nell’arco degli ultimi venti anni la nostra società ha subito un profondo mutamento economico-sociale ad opera del web. Infatti, con la rapida evoluzione delle tecnologie informatiche negli anni ’90, la rete Internet si è espansa molto rapidamente, mettendo a nudo le proprie potenzialità latenti.
Intuendo la rivoluzione tecnologica in corso, giovani studenti universitari e tecnici informatici, passati alla storia recente come i sognatori della Silicon Valley, hanno continuato a lavorare per sviluppare, soprattutto commercialmente, questa realtà e, allargando il bacino di utenza degli users, hanno aumentato esponenzialmente il volume di affari legato al web. Dunque, in breve tempo, dalla rivoluzione tecnologica si è passati a quella sociale. Quest’ultima ha così trasformato il mondo virtuale, ideologicamente concepito come nuovo e antistante al mondo reale, in una sua parte integrante.
Fra questi dreamers, forse i più importanti in assoluto sono Larry Page e Sergey Brin, ovvero i fondatori di Google. L’idea semplice ed al contempo strabiliante di questi ragazzi è stata quella di creare un algoritmo che permettesse ad un utente qualunque di poter facilmente eseguire una ricerca, così da ottenere come risultato una lista di link di accesso a siti web ordinata in base alla popolarità degli stessi.
Venti anni dopo Google ha un giro di affari di circa 110 miliardi di dollari, mette in contatto fra loro un miliardo di persone ed ha 60.000 dipendenti provenienti da cinquanta paesi in giro per il mondo. Nel frattempo, è riuscito ad inglobare grosse realtà dell’industria elettronico/informatica come, ad esempio, Motorola, Youtube e Waze.
Non è dunque difficile immaginare la sua influenza, anche solo in termini potenziali, sulla società odierna: basti pensare che fattura più di molti stati nazionali; che al momento non ha nessun vero competitor nelle proprie aree di pertinenza; che raccoglie una mole ingente di dati dai propri utenti, archiviandoli od utilizzandoli in vario modo.
In particolare, in questo articolo ci si soffermerà su quest’ultimo aspetto.
In effetti, negli ultimi anni, le critiche più dure ai giganti del web (fra gli altri Apple, Amazon, etc..) hanno riguardato il tema della privacy e del diritto di autore. A voler coniare espressioni utilizzate dal sociologo Evgeny Morozov, ultimamente si suole parlare di estrattivismo e di distribuzionismo per indicare due fenomeni fra loro connessi. Con il primo termine si identifica la tendenza delle grandi multinazionali di internet ad estrarre sempre più dati dalle attività online dei loro utenti. Con il secondo termine si identifica la reazione delle persone più preoccupate per l’utilizzo di tali dati e che chiedono conseguentemente una loro ridistribuzione verso i loro titolari. Ma l’approccio può cambiare in base all’idea politica che si adotta: nel caso di un’impostazione liberistica, basata sulla centralità del concetto di proprietà privata, si richiede una distribuzione dei proventi guadagnati dall’utilizzo dei dati da parte dei providers ai loro legittimi titolari. All’opposto, nel caso di una visione maggiormente collettivistica, si è proposto di creare delle realtà pubbliche a cui i vari providers siano obbligati a trasmettere parte dei loro dati e ciò al fine di condividerli con il resto della società.
A livello pratico, nemmeno un mese orsono, il parlamento europeo, nella nuova direttiva sul copyright approvata il 12 settembre 2018, ha inteso “sposare” il primo dei suesposti orientamenti ideologici. Infatti, secondo il provvedimento comunitario, editori, artisti e giornalisti avranno diritto ad essere remunerati a seguito dell’utilizzo commerciale connesso alla pubblicazione online delle loro opere (artt. 11-13 direttiva). Tuttavia, il medesimo provvedimento prevede numerose eccezioni a tale diritto, a partire da un’esenzione per le piattaforme che utilizzano i contenuti caricati a fini non commerciali (esempio tipico è quello di Wikipedia) fino a giungere alle micro-imprese, non comuni nel mercato digitale e per questo care al legislatore comunitario.
Di converso, al fine di tutelare i loro interessi, i providers potranno adottare degli upload – filter, così da impedire la visualizzazione nei loro domini di contenuti illeciti.
Non vi è però dubbio alcuno che la direttiva, già oggetto di asprissime critiche, da una parte dirette ad accusare un potere di censura preventiva in capo ai providers, oltre che a lamentare una certa ritrosia ad adottare misure più incisive, e dalla parte opposta volte a segnalare un’ingerenza statale nel modello economico del mondo virtuale, nei propri intenti ha voluto indicare una delle possibili vie verso una nuova era del mondo digitale.
Aldilà di scetticismi ed affermazioni ideologiche, prendendo atto che toccherà agli stati membri dell’UE decidere se e come adottare le misure contenute nel provvedimento comuntario, non si può di certo non guardare con interesse a questa e ad altre novità che, molto probabilmente, caratterizzeranno il mutamento sociale del mondo virtuale negli anni avvenire.
Mario Balliano