C’è un aspetto, di poco risalto mediatico, della crisi medio orientale, che merita un approfondimento.

Al di là della tregua delle armi, della restituzione degli ostaggi,  della condivisione di una forza militare indipendente che si dispieghi tra i due contendenti gestendo il cessate il fuoco a tutela sia di Israele sia dei palestinesi, c’è un punto cruciale per sperare sul serio in una duratura pace o comunque in una conflittualità non permanente.

Anche il recentissimo piano Biden si fonda su tale fondamentale aspetto: l’insediamento di una nuova leadership palestinese, con una legittimità che oggi manca all’Autorità Palestinese che ha sede in Cisgiordania.

Chi rappresenterà il popolo palestinese nella trattativa per la costruzione del famoso progetto mai attuato “Due popoli, due stati”, lo slogan coniato ad Oslo nel 1993 per sintetizzare efficacemente la soluzione politica e geografica della secolare crisi medio orientale?

Chi, oggi, nel mondo palestinese, può da un lato essere credibile verso gli Stati Uniti e verso i paesi arabi, in particolare l’Arabia Saudita e nello stesso tempo, dall’altro, ottenere il consenso della maggioranza dei propri cittadini, candidandosi ad essere un serio interlocutore per Tel Aviv?

L’esperienza del gruppo dirigente dell’Autorità Palestinese prima di Arafat e poi di Abu Mazen è stata sostanzialmente negativa.

Molte delle possibili ipotesi di accordo tra le parti si sono infrante proprio per la incapacità dei leader palestinesi di ottenere il consenso del proprio popolo e soprattutto degli estremisti fondamentalisti.

Esiste oggi una classe dirigente palestinese con un’anagrafe e una credibilità adeguate al difficilissimo compito  che le spetterebbe?

Abbiamo provato ad investigare su questo lato opaco della crisi medio orientale.

In base ad un’analisi delle più recenti ricerche di origine americana, inglese o israeliana emergono sostanzialmente tre figure politiche.

Vediamole nel dettaglio.

Gli americani stanno investendo su un uomo che ha già avuto responsabilità di governo in Palestina e che, attualmente lavora negli Stati Uniti, all’università di Princeton dove ha la cattedra di professore di economia.

Stiamo parlando di Salam Fayyad, 72 anni, sposato con tre figli, un passato vissuto in parte in America e in parte in Medio Oriente.

Fayyad si è laureato in economia a Austin nel Texas completando la sua preparazione all’università americana di Beirut.

Ha lavorato presso il Fondo Monetario Internazionale fra il 1987 e il 1995 e poi è divenuto il rappresentante dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) presso il Fondo Monetario fino al 2001 quando venne richiamato in patria e nominato, nel 2002, Ministro delle Finanze nel governo provvisorio di al-Fath.

Nel 2007 fu scelto come Primo Ministro del governo palestinese dal presidente Abu Mazen.

Due anni dopo, nel 2009, Fayyad presentò le sue dimissioni che furono respinte.

Il 13 aprile 2013, dopo aver tentato invano di coagulare un consenso del suo programma politico, ripresentò le dimissioni che questa volta furono accettate e la sua esperienza governativa si chiuse proprio il 6 giugno 2013.

L’ex presidente del governo palestinese segue con attenzione l’evolversi del drammatico conflitto di Gaza da Princeton dove ha rilasciato recentemente un’intervista a Francesca Borri che sintetizza il suo pensiero in merito alla situazione attuale e ad un possibile “Day after” della guerra.

Anche se oggi non costituisce una priorità – ha detto Fayyad – dobbiamo pensare al dopo! Di fronte agli oltre 30.000 morti la priorità numero uno è il cessate il fuoco. Questa non è più la guerra contro Hamas ma è diventata di fatto, nonostante le dichiarazioni di Netanyahu, una guerra contro tutti i palestinesi. Il governo di Tel Aviv vuole che il popolo palestinese se ne vada da Gaza e si rifugi in Egitto. Se non si trova una soluzione che porti ad un cessate il fuoco immediato non ci sarà nessun “day after” di cui discutere”.

Fayyad, come abbiamo visto, è arrivato al potere a Ramallah con un governo tecnico nel 2007, l’anno in cui ci fu la rottura tra Fatah e Hamas: Abu Mazen vide in lui l’uomo giusto per cercare di trovare una mediazione dopo la frattura fra le due fazioni in lotta.

La sua esperienza governativa è considerata da molti una parentesi positiva nel caos palestinese.

L’idea di fondo del governo di Fayyad fu quella di trattare con Tel Aviv su tutti i dossier aperti e cioè l’indipendenza, la natura giuridica di Gerusalemme, gli insediamenti israeliani e tutte le altre questioni, meno rilevanti, ma comunque oggetto di conflitto tra le parti.

Nel  mentre però, pensare a costruire davvero “Il nostro nuovo Stato palestinese”.

Occuparsi quindi della governance e delle istituzioni del nuovo Stato e di tutte le infrastrutture necessarie.

L’idea di Fayyad era quella di replicare paradossalmente l’esperienza di Israele che nel ’48, quando fu riconosciuta dall’Onu, aveva già individuato e definito il proprio governo e il funzionamento del proprio nuovo Stato.

Un dato economico ci fa riflettere sull’opera di Fayyad come Primo Ministro del governo palestinese dal 2007 al 2013: mentre Gaza sprofondava nella povertà, il Pil pro-capite della West Bank aumentava del 221%!

Per la prima volta nella storia recente di quel territorio, nel 2012 non si registrarono vittime tra le parti in causa.

Nell’ultima intervista rilasciata ai media internazionali, Fayyad ha sottolineato che la soluzione del problema non è certamente quella di ridurre allo stremo la popolazione locale per poi imporre una soluzione dall’esterno, contro o senza la volontà palestinese.

Fayyad è stato molto onesto nel fotografare la crisi della leadership dell’Autorità Palestinese “Non mi sembra che sarebbe in grado di governare un eventuale post conflitto: non è una questione tecnica ma politica. L’Autorità Palestinese era già in crisi prima del 7 ottobre e anzi, la sua crisi, proprio di legittimità, è stata una delle ragioni di quanto accaduto il 7 ottobre. Non sarebbe in grado di gestire le tensioni di Gaza. L’ideale sarebbe di avere nuove elezioni, ma al momento non mi sembra uno scenario realistico”.

Per Fayyad l’organo più rappresentativo sarebbe l’Olp che è in vetta a tutti i sondaggi attuali, ma non include Hamas.

Il progetto di Fayyad sarebbe appunto quello di allargare il numero dei membri dell’Olp che anch’essa dovrebbe comunque essere riformata.

Coinvolgendo anche Hamas, l’Olp potrebbe parlare a nome di tutti e quindi darsi un proprio governo molto più autorevole.

Alla domanda dei giornalisti “Ma Israele accetterebbe di trattare con un Olp con Hamas”?

Fayyad è stato  molto preciso nella risposta. “Il punto non è accettarla o meno: Hamas c’è. E non è possibile eliminarla. Hamas non è Yahya Sinwar e basta, non è Gaza e basta, non è combattimenti e basta: è un movimento molto complesso. Tutte cose che Israele sa bene”.

Però, per Hamas, la Palestina dovrebbe andare dal fiume al mare, dal Giordano a est fino al Mediterraneo a ovest, senza alcuno spazio per Israele: “E quando Netanyahu  – risponde Fayyad sarcastico – tira fuori una mappa del nuovo Medio Oriente, come ha fatto all’Onu nello scorso settembre, e Israele va dal fiume Giordano al mare, non è uguale? Ma agli estremisti israeliani, nessuno dice mai niente. E certo nessuno pensa di escludere Israele dai negoziati”.

Per Fayyad è fondamentale che il popolo palestinese si convinca del “self-empowerment”: la consapevolezza di sé e delle proprie potenzialità, per diventare artefici della propria vita. “Ora più che mai: è tempo di concentrarci su noi stessi. Perché alla fine, è il nostro Stato: è una nostra responsabilità. Non verrà da altri, come un atto di generosità. L’occupazione dei nostri territori si sfida così, costruendo una realtà diversa. Purtroppo nella realtà, Israele non ha mai accettato una prospettiva di uno Stato palestinese. L’espressione “popolo palestinese” si trova soltanto in un documento del 1993 quando Rabin scrisse ad Arafat riconoscendo l’Olp come rappresentante del popolo palestinese”.

Fayyad sulla rivista Foreign Affairs ha proposto la costituzione di un governo di transizione che gestisca una trattativa con Israele e gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita e che riconosca i diritti nazionali palestinesi nei confini del 1967. Questa è la pregiudiziale per negoziare gli altri punti: “Solo così avremo la garanzia che Israele questa volta è affidabile”.

Questo è il punto di partenza per l’ex Primo Ministro palestinese che crede anche che una risoluzione dell’Onu debba intervenire per individuare la data della fine dell’occupazione israeliana.

Una risoluzione vincolante. Se Israele intende davvero essere una nazione tra le nazioni, parte della comunità internazionale come tutti gli altri, non può interpretare gli obblighi come raccomandazioni. Un semaforo rosso non è un consiglio. Al semaforo rosso ti fermi e basta”.

Fayyad immagina quindi un governo unico per la Cisgiordania e Gaza: “L’Olp si impegnerebbe ad una transizione pacifica. L’inclusione di Hamas darebbe una legittimità diversa al governo palestinese per la trattativa del suo futuro

Perché bisognerebbe fidarsi di tale scenario? Perché Tel Aviv dovrebbe accettarlo?

La risposta di Fayyad è molto chiara. “Perché altrimenti continueremo così all’infinito. Anche a prescindere dalla questione morale: è nel suo interesse. E’ utile a Israele tutto questo? Tutte queste guerre? Cosa ottiene? E comunque, posso interrogarmi su Israele fino ad un certo punto. Non è da Israele che verrà la mia libertà”.

Già… soltanto dal self-empowerment!

Fayyad è il candidato preferito dagli Stati Uniti ma un altro esponente del movimento palestinese che riscuote i consensi della diplomazia internazionale, o almeno di parte di essa, è Husni Abdel Wahed, il diplomatico che ha lavorato per far sì che la Spagna riconoscesse recentissimamente a pieno titolo la Palestina come stato indipendente.

Wahed è da tempo un esponente di punta della diplomazia palestinese.

E’ nato nel 1960 in un campo profughi nei pressi di Gerico, in Cisgiordania.

Ha studiato scienze sociali in  Bulgaria e giornalismo a Cuba prima di essere chiamato al ministero degli esteri palestinese che lo ha inviato nel 2015 in Argentina e poi trasferito in Spagna dove ha intessuto un ottimo rapporto di collaborazione con l’attuale Primo Ministro Sanchez.

Il riconoscimento dello Stato palestinese deciso da Spagna, Irlanda e Norvegia è stato sicuramente merito del suo lavoro.

Credo che sia un passo positivo – ha commentato lo scrittore David Grossman– ho un profondo rispetto per gli affari interni di Israele ma un’occupazione che dura da 56 anni non può essere considerata una questione interna. Israele si sarebbe dovuta aspettare questo sviluppo dopo aver fatto molto poco per risolvere il conflitto. Quanto avvenuto è comunque positivo perché come stato sovrano indipendente i palestinesi dovranno distanziarsi dai comportamenti e dalla mentalità del terrore”.

Importante è stata la chiosa di Husni Abdel Wahed: “Tutto il mondo deve aver chiaro che lo Stato palestinese non è una minaccia per nessuno, è una garanzia di pace e sicurezza”.

Il terzo possibile protagonista di un rilancio della leadership palestinese potrebbe essere l’attuale Primo Ministro Mohammad Mustafà, economista, incaricato da Abu Mazen di presiedere il governo di Ramallah, in Cisgiordania, lo scorso 14 marzo 2024.

Mustafà ha 69 anni, è l’ex consigliere economico del presidente Mazen, ha ricoperto per 15 anni posizioni di rilievo alla Banca Mondiale a Washington.

La nomina di Mustafà costituisce, secondo i media palestinesi, un tentativo di rafforzare le istituzioni locali in un momento in cui Abu Mazen è sottoposto a forti pressioni da Washington.

La sua nomina è stata accolta con favore alla Casa Bianca che ha confermato di aspettarsi ampie riforme da parte del governo palestinese.

Insomma, un’Autorità Palestinese rinnovata e autorevole è  l’unica soluzione per poter aspirare ad una vera trattativa di pace tra israeliani e palestinesi.

Chissà che uno dei tre protagonisti di cui abbiamo parlato non sia quello giusto per avviare una concreta trattativa di pace.

Già… ma anche la leadership israeliana dovrebbe essere rinnovata perché se no tutto rischia di essere di nuovo fallimentare.

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