Confessiamoci, almeno tra di noi, la verità: magari sussurrandola perché non è politically correct. Siamo stufi, soprattutto noi europei, di essere sempre, nelle piazze e nella cultura contemporanea, sul banco degli imputati, in un permanente processo nei confronti delle responsabilità del nostro passato. I vari movimenti nati nell’ultimo decennio, da quello denominato in modo significativo “Cancel Culture” a quello dei “Black Leaves Matter”, tutti di matrice americana e cioè, e questo bisogna ammetterlo con lucida franchezza, con una genesi in un paese che non ha ancora metabolizzato in modo civile e virtuoso il tema razziale, questi movimenti, dicevo, hanno assunto come mantra dei loro manifesti politici e strategici, la condanna dell’Occidente e del suo passato. Hanno stimolato le piazze a buttar giù i monumenti di eroi nazionali colpevoli alternativamente di razzismo, di schiavismo, di stragi di innocenti. Hanno esaltato la necessità di una profonda rivisitazione del nostro passato, mettendo in dubbio tutti i valori che hanno rappresentato il successo della civiltà occidentale, archiviandoli come valori negativi, da cancellare ed abbattere. Per fortuna, a nostro avviso, pare che siano in declino e che il consenso intorno alle loro iniziative stia crollando. Si è creato, comunque, un fenomeno di politically correct che oggi ci costringe quasi a vergognarci delle nostre colpe, delle imprese dei nostri antenati, della nostra storia, invertendo e contestando la realtà dei fatti.
La domanda, allora ci viene spontanea: pur apprezzando il tentativo di rileggere il nostro passato senza spirito di auto assoluzione ma cercando di rivisitarlo in modo corretto e per quanto possibile obiettivo, abbiamo davvero accumulato tutte le colpe che ci vengono contestate? Personalmente, credo di no e penso che sia arrivato il momento di rialzare la testa, reagendo ai soprusi e rilanciando l’epopea di un Occidente che ha avuto un ruolo essenziale nell’evoluzione delle civiltà del pianeta. Dobbiamo tornare ad essere consapevoli che la scienza occidentale, la medicina, l’agronomia sono state copiate ed applicate dal resto dell’umanità con benefici immensi. Se la vita media dei cittadini del mondo è aumentata, la mortalità infantile sensibilmente diminuita, il livello di istruzione é cresciuto nel mondo intero, é perché l’Occidente ha costruito ed esportato progresso. Proprio qui sta il cuore della narrazione dell’ultimo libro scritto e pubblicato da Federico Rampini, editorialista del Corriere della Sera, giornalista che ha vissuto a Parigi, Bruxelles, San Francisco, Tokyo e Pechino, studiando e curiosando nelle culture delle varie civiltà che ha conosciuto direttamente. Il suo ultimo saggio ha un titolo forte , volutamente provocatorio… “dolosamente” politically incorrect: “Grazie, Occidente!” (edizione Mondadori).
“Viviamo in un’epoca – ha scritto l’autore – in cui pronunciare queste verità è scandaloso e proibito. Il conformismo dominante impone una versione bugiarda della storia, in cui la “razza bianca”, europea o nordamericana, ha seminato solo distruzione, oppressione, sofferenze. L’idea stessa di progresso è disprezzata, siamo sottoposti ad un lavaggio del cervello quotidiano per inculcare la certezza che l’apocalisse é dietro l’angolo… per colpa nostra”.
L’autore, con il supporto di un’ampia mole di documenti, dimostra che al contrario di quanto propagandato dai contestatori, il progresso del mondo occidentale si è rivelato un grande vantaggio anche per “l’altro mondo” perché ha determinato ovunque, seppur in gradi e tempi diversi, un miglioramento senza precedenti di condizioni di vita, livelli di istruzione e di benessere, diritti e libertà.
Per Rampini è urgente che le nuove generazioni possano apprendere una lezione di storia vera e onesta non contaminata da manipolazioni di natura politica false. Dobbiamo ricostruire la nostra autostima e vedere il futuro con più fiducia.
Qual è stata la molla che ha spinto Rampini a fare questa scelta controcorrente, sfidando il conformismo dilagante? Lo spiega lui stesso nel libro: “Vivo a New York nel cuore di una cultura conformista che processa l’Occidente come la civiltà più malvagia, e impone che ci si genufletta quotidianamente davanti al resto del mondo per le sofferenze che abbiamo inflitto”.
Il titolo del libro vuole essere per l’autore come un cazzotto dato ad un pugile ormai rassegnato alla sconfitta, dubbioso di essere il responsabile di tutti i mali del mondo. “Siamo caduti in basso – scrive Rampini – se insegnare la storia vera diventa una provocazione. L’Occidente è stato protagonista di tre secoli meravigliosi in cui abbiamo accumulato una quantità sbalorditiva di scoperte, invenzioni – nella medicina, nelle tecniche di coltivazione, nell’industria – i cui benefici immensi sono stati diffusi all’umanità intera. Senza la nostra medicina che ha debellato la mortalità infantile e ha allungato di decenni la longevità umana, senza la nostra agronomia che ha moltiplicato i raccolti, oggi non sarebbero vivi miliardi di cinesi, indiani, africani. Tutti i miracoli economici asiatici sono avvenuti copiando la nostra tecnologia, la nostra economia di mercato e riportando conquiste occidentali come l’istruzione di massa”.
È interessante una riflessione che Rampini fa sul perché sia nato il movimento mondiale, di origine americana, che ha come obiettivo la distruzione proprio di tutti questi meriti acquisiti dall’Occidente. Secondo l’autore c’è stato infatti un calcolo speculativo da parte dei molti e diversificati promotori di questo fenomeno culturale distruttivo. La nomenclatura comunista cinese, ad esempio, ha strumentalizzato la Cancel Culture per finalità competitive. Dopo aver copiato la modernità occidentale, la Cina la usa contro di noi, aizza le classi dirigenti dei paesi emergenti in nome dell’antico colonialismo, oscurando il fatto che la stessa Repubblica Popolare è uno degli ultimi imperi coloniali, avendo soggiogato Tibet, Mongolia e Xinjiang . “Ci sono oligarchie del terzo mondo che accusano l’Occidente per nascondere le proprie ruberie e i propri fallimenti”.
Ma Rampini non si ferma alla Cina: elenca una serie di movimenti partoriti all’interno della nostra stessa civiltà che hanno smontato, sbeffeggiato e svuotato di contenuto tutti i benefici che l’Occidente ha dato al mondo intero: “Poi abbiamo l’anti-occidentalismo di casa nostra che ha una lunga storia e spesso si ricollega a tre grandi famiglie politiche ben rappresentate in Italia: comunismo, cattolicesimo, fascismo. E poi, c’è la variante più aggressiva, fabbricata e diffusa dalle élite protestanti americane: i movimenti puritani di autoflagellazione, di espiazione collettiva delle proprie colpe, vere o presunte, sono una costante della storia americana fin dall’Ottocento”.
Tutto quanto accaduto negli ultimi 10 anni ha fortemente condizionato, secondo l’autore, l’educazione e la cultura delle nuove generazioni. Hanno subito – sostiene Rampini – un lavaggio del cervello. Quando gli si insegna la rivoluzione industriale è obbligatorio associarla con l’imperialismo coloniale, il razzismo, lo schiavismo, la distruzione del pianeta, l’inquinamento. Se poi si aggiungono anche le influenze dell’industria cinematografica hollywoodiana, l’indottrinamento diventa a senso unico: la storia occidentale raccontata come un grande romanzo criminale. In questa avversione si omette che le altre civiltà hanno praticato lo schiavismo quanto noi, che gli altri imperi sono stati oppressivi quanto i nostri: ma solo noi abbiamo inventato i vaccini e gli antibiotici! La generazione Z dopo aver subito questo indottrinamento è segnata da punti di infelicità, ansia, depressione. “Il mio libro vuole essere un antidepressivo!” sembra quasi gridare Rampini.
“Non date retta ai catastrofisti, il mondo non sta andando a pezzi. La verità è questa: se doveste scegliere in tutta la storia dell’umanità il periodo migliore in cui essere vivi, scegliereste quello attuale”. E questa verità l’ha detta anche Barack Obama non più tardi di otto anni fa. Criticare il modello di sviluppo occidentale è giusto, a patto di sapereciò che ne ha scritto un suo insospettabile critico, il filosofo arabo Amin Maalouf: “Tutti quelli che combattono l’Occidente e contestano la sua supremazia per delle buone o cattive ragioni, vanno incontro ad un fallimento ancora più grave del suo”.
Ma ci sono altre ragioni che ci possono spiegare il perché di questa isteria autodistruttiva: certe élite culturali pensano che denunciare la nostra cattiveria sia il segno di una moralità superiore. “Le élite, in questo modo – spiega Rampini – perpetuano il proprio ruolo: ci sono casti intellettuali che devono la propria legittimazione ad una missione sacerdotale, guidano le masse nei riti del pentimento collettivo”.
La tesi del libro è stata apprezzata nelle recensioni con qualche puntualizzazione. Il saggio di Rampini, per Corrado Augias, per esempio, richiede anche una lettura in controluce. Citando un saggio di Jared Diamond (“Armi, acciaio e malattie” – Einaudi) che cercava di rispondere alla domanda “Perché gli spagnoli hanno colonizzato (invaso) le “Indie“ e non sono stati gli indios a colonizzare (invadere) la Spagna?” Augias ha sottolineato come a Diamond sia mancato lo spirito rivendicativo di Rampini, evidenziando come le tesi dell’editorialista del Corriere della Sera rischino di essere eccessive rispetto alla realtà. “Manca a Rampini – ha scritto Augias – la necessaria, robusta, insistita sottolineatura del carattere aggressivo, a volte spietato, con cui l’Occidente – gli Stati Uniti, ma non solo – hanno mescolato al molto bene anche massicce dosi di male”.
Alla domanda però rivolta all’autore: l’Occidente ha fatto solo cose buone? La risposta ci è parsa lucida e misurata, non eccessivamente estremista come interpretata da Corrado Augias: “L’Occidente ha commesso crimini orrendi – ha scritto Rampini – come tutte le altre civiltà. Ma noi li riconosciamo, gli altri no. Non si è mai sentito un leader arabo chiedere scusa per la tratta degli schiavi africani”.
Uno dei temi più importanti del libro riguarda ovviamente la gestione dell’immigrazione, un aspetto fondamentale nelle relazioni fra diverse civiltà: “All’origine c’è un’idea semplice, accattivante e sbagliata – scrive Rampini – che noi siamo ricchi perché abbiamo reso poveri gli altri. Questo luogo comune calpesta decenni di studi sulle vere cause del sottosviluppo. Ignora la realtà che il colonialismo lo hanno praticato altri più a lungo di noi: in Medioriente i turchi ottomani, per esempio. Diffondere tra i migranti l’idea che abbiano diritto a nutrire rancore nei nostri confronti e a rivendicare risarcimenti perpetui è la ricetta sicura per impedire la loro integrazione. Questa cultura del vittimismo sta sfasciando persino l’America, che aveva avuto una società multietnica funzionante”.
Le frustrate intellettuali di Rampini nei confronti degli eccessi dell’autolesionismo di alcune élite culturali occidentali trovano dimora, anche se articolati in modo diverso, nell’ultimo libro dello storico francese Emanuel Todd “La sconfitta dell’Occidente“ (Fazi Editore). Dopo aver previsto in anticipo il crollo dell’Unione Sovietica e lo scoppio delle primavere arabe, Todd, oggi, delinea i confini della sconfitta dell’Occidente partendo proprio dalla fallimentare difesa, secondo lui, dell’Ucraina. Per Todd l’obiettivo degli americani non è quello di difendere l’Ucraina ma è quello di mantenere il controllo sull’Europa. La pace sarebbe a portata di mano se gli europei -Germania, Francia, Italia – riprendessero le redini di una diplomazia svincolata dalla tutela americana: “Una prospettiva, allo stato, del tutto astratta” per Todd. Secondo lo storico francese la crisi dell’Occidente, proprio in base ad una analisi empirica, sarebbe causata dall’evaporazione del protestantesimo e del suo sistema di valori. “Ho cercato di sviluppare le tesi esposte da Max Weber nel famoso saggio del 1905 sull’etica protestante e lo spirito del capitalismo: Weber scorgeva nella religione di Lutero, ma soprattutto di Calvino, il propellente dell’ascesa e del dominio occidentale”. Oggi, secondo Todd, il protestantesimo vitale si è affievolito e rischia di diventare il “protestantesimo zero”. Ci siamo arresi ad un declino che potrebbe essere irreversibile, salvo sganciarci, come europei, dal “commissariamento” americano, non solo come valori di riferimento ma anche in materia di difesa. Solo così, mantenendo un rapporto di alleanza con Washington ma non di sudditanza, l’Occidente europeo può rilanciarsi in un suo nuovo Rinascimento.