Come siamo diventati volatili. Riusciamo a concentrarci sulla stessa questione per pochi minuti perché poi subentra la distrazione, l’ansia del tempo, la necessità di “girare subito pagina”. Proprio in questi giorni il direttore di Repubblica, Maurizio Molinari, sottolineava quanto fosse importante educare i nostri ragazzi a riconquistarsi il proprio tempo. A metterci pazienza, attenzione, partecipazione: non solo sguardi momentanei, ossessivi gesti con l’indice della mano a scorrere in modo maniacale le notizie sui media online.
Questa distrazione di massa inizia a dare segnali drammatici in tutto il mondo: le nuove tecnologie, i magici device in continua ed incessante evoluzione, ci stressano obbligandoci ad una gestione del nostro tempo quasi ossessiva. E i risultati di tale ansia generalizzata si incominciano a percepire in termini di disattenzione, indifferenza, incapacità a concentrarci, menefreghismo, perdita di contatti con la realtà.
Riccardo Luna, il giornalista-divulgatore proprio delle tematiche inerenti la rivoluzione digitale in atto, ci segnala un episodio paradigmatico del rischio che stiamo correndo tutti noi. Alla fine dello scorso mese di maggio, decine di milioni di persone hanno cliccato in tutto il mondo sull’immagine creata con un’Intelligenza Artificiale e denominata “All Eyes On Rafah” (tutti gli occhi del mondo su Rafah): in quella piccola città a sud della striscia di Gaza, al confine con l’Egitto, c’erano 1 milione e mezzo di sfollati, che si erano rifugiati lì per scappare dall’invasione e dai bombardamenti di Israele.
“Nessuno pensava davvero che con un clic su Instagram si potesse fermare la guerra – ha scritto Luna – ma quell’improvvisa iniziativa voleva comunque mandare un messaggio al mondo e a Israele: potete nascondere quello che sta accadendo, potete provare a raccontarcela come volete, ma noi vi stiamo guardando”. Oltre 40 milioni di cittadini del pianeta cliccarono su quell’immagine per testimoniare la loro solidarietà: un segnale fantastico!
Dopo pochissimi giorni, l’attenzione si rivolse altrove verso un nuovo trading topic da seguire, verso un nuovo meme da condividere. Rafah era dimenticata, l’immagine dei morti della catastrofe palestinese archiviata e sostituita da una nuova notizia più suggestiva. Ormai, sostiene Riccardo Luna, siamo fatti così: nel caso di Rafah non è colpa dei palestinesi, né la gente ha cambiato idea sulle atrocità che si stanno compiendo in Medioriente. Semplicemente siamo diventati leggeri, distratti, sostanzialmente indifferenti e sempre alla ricerca “di qualcosa di nuovo“ da cliccare, in una perversa idrovora pseudo intellettuale.
Ho voluto partire da questa triste e preoccupante fotografia del “come siamo diventati” per condividere l’amara sorpresa di constatare come nel mondo, in questo complesso e controverso 2024, ci siano altri “figli di un Dio minore” che vivono le stesse tragedie dei palestinesi sfollati a Rafah, ma di cui nessuno parla! Nessuno si preoccupa!
Nello stesso momento in cui tutta l’attenzione mediatica, soprattutto online, é concentrata sull’Ucraina e su Gaza, ci sono altri popoli nel mondo che stanno soffrendo le stesse atrocità, che stanno vivendo gli stessi tragici problemi, eppure noi, distratti ed indifferenti non ce ne ricordiamo quasi più o quasi mai. Una brutta deriva che dobbiamo in tutti modi cercare di arginare, partendo dall’educazione delle nuove generazioni che, in caso contrario, non potranno che esasperare questo fenomeno sempre più invasivo.
Ma vediamo le tre crisi che attualmente caratterizzano tre aree del mondo e che sono state dimenticate da noi “sonnambuli” interessati soltanto alla nostra angosciante gestione del tempo. Ci riferiamo a cosa stia succedendo in Georgia, in Birmania, in Azerbaigian nella più totale indifferenza dell’Occidente, di noi tutti.
Georgia
L’appello della Presidente georgiana Salomè Zourabichvili è stato forte e chiaro: “La guerra in Georgia può scoppiare solo se ci lasciate soli davanti alla Russia”. Difficile fare i sonnambuli e non prestare attenzione a cosa stia accadendo a Tbilisi e in tutto il Paese divenuto indipendente 33 anni fa, dopo lo smembramento dell’Unione Sovietica. La scintilla del malessere georgiano è scoppiata, soprattutto tra i ragazzi nati dopo la dichiarazione di indipendenza della nazione.
Lo spunto lo ha offerto il governo locale quando ha proposto in Parlamento la legge sulle “Influenze straniere”. La norma, considerata da Bruxelles un ostacolo insormontabile nel percorso della Georgia candidata all’ingresso nell’Unione Europea, prevede l’istituzione di un registro delle organizzazioni che perseguono gli interessi di una potenza straniera. Il dubbio, per molti ragazzi georgiani è che una volta entrata in vigore la norma, questa permetterà l’oscuramento dei media e la chiusura delle associazioni non governative che ricevono fondi esteri per le loro attività.
Il partito di maggioranza georgiano denominato “Sogno”, al potere dal 2012, ha voluto, secondo i dissidenti, su pressioni di Mosca, da un lato, irrigidire il controllo sulla parte di popolazione non favorevole ad un’alleanza coi russi, dall’altro, frapporre un ostacolo definitivo ed irreversibile alla possibile entrata della Georgia tra i paesi membri dell’Unione Europea.
Da almeno trent’anni il Paese ha instaurato un rapporto di stretta collaborazione con l’Occidente ovviamente un progetto non gradito dall’entourage di Putin. Nel dicembre del 2023, Bruxelles pur non avendo la Georgia risolto positivamente tutte le condizioni per portare a casa la legittimazione ad entrare ufficialmente nell’Unione Europea, concesse ugualmente alla Georgia il titolo formale di “Stato Candidato”.
Tale scelta, finalizzata a stimolare il governo georgiano a completare il percorso di riforme in modo tale da soddisfare le condizioni poste per l’entrata nell’Unione Europea, in realtà ha innescato un effetto contrario. Probabilmente con il supporto, ovviamente riservato, di Mosca, l’attuale governo georgiano ha iniziato a perseguire politiche regressive molto simili a quelle russe. Ha reintrodotto, appunto, la legge sugli “Agenti dello Stato straniero” (approvata in aula parlamentare con 84 voti a favore) proponendo altresì una nuova legislazione anti-Lgbtq+.
Da oltre due mesi nelle piazze di Tbilisi e in tutta la Georgia, i giovani protestano pacificamente contro questa deriva autoritaria di stampo russofilo. La Presidente Salomè Zourabichvili, in carica dal 2018, ha dichiarato che metterà il veto sull’entrata in vigore nella norma: “Il mio veto però – ha precisato – é aggirabile dalla maggioranza che ha approvato la legge ma, se le pressioni europee aumenteranno, il governo potrebbe essere costretto a prendere tempo. Ecco il perché del mio appello all’Unione Europea e all’opinione pubblica occidentale perché non ci abbandonino al nostro destino”.
Ad ottobre 2024 sono in programma le elezioni politiche in Georgia e lì ci sarà la resa dei conti finale. I segni dell’influenza di Mosca sono molti ed evidenti e bisognerà vigilare sulla correttezza del voto arginando i tentativi di frode. Insomma, la Georgia è di fronte a una data storica: le nuove generazioni ma ragionevolmente anche la maggioranza della popolazione, ha ormai scelto di far parte dell’Europa occidentale, rifiutando ogni promessa di alleanza con Mosca che ha già invaso e occupato una parte del paese non più tardi di 10 anni fa. Sarebbe un grande errore strategico da parte di tutti noi europei lasciare Tbilisi al suo destino: il rischio di una nuova invasione russa tipo quella in Ucraina sarebbe altissimo.
Birmania
Da tre anni i militari sono tornati al potere ed è iniziato il momento più oscuro e tragico della storia del Paese: omicidi, violenze, libertà individuali minacciate o soppresse. Sono i giovani a mantenere in vita la speranza di un cambiamento. Dopo le proteste, gli arresti, la chiusura di numerose associazioni no profit occidentali, i ragazzi hanno deciso di cambiare strategia: hanno costituito in clandestinità un esercito ribelle e lottano contro i reparti del governo militare di Rangoon.
Dal 2007, meno di vent’anni di illusioni, di faticosa ricerca di libertà e democrazia, l’orologio della storia birmana ha deciso ancora una volta di tornare indietro, di cancellare ogni possibile progresso verso una convivenza civile e pacifica. La casta dei militari è di nuovo protagonista della vita politica locale.
Perché questa recrudescenza di violenze in una Birmania (oggi Myanmar) già martoriata negli ultimi vent’anni da una guerra civile atroce che ha decimato la popolazione locale? Fonti locali ci dicono che la svolta negativa è arrivata dal repentino cambiamento di campo dei religiosi buddisti: dalle proteste di piazza i bonzi sono passati all’appoggio della giunta militare. Una clamorosa retromarcia ovviamente immaginata e gestita da qualche burattinaio dell’élite politica birmana. Pare che dietro questa manovra ci sia Mosca che ha appoggiato e favorito la nuova alleanza fra i militari al potere e i religiosi buddisti.
Si parla anche di un vero e proprio scambio di favori: l’appoggio politico contro denaro, auto di lusso, privilegi vari. L’esempio riportato dalla stampa internazionale riguarda una delle figure di spicco della comunità dei monaci birmani: U Kovida, noto soprattutto per le sue capacità divinatorie da astrologo. Ebbene U Kovida è diventato l’uomo di fiducia del regime, incassando rilevanti donazioni in denaro. Sembra incredibile che in un Paese che soltanto una quindicina di anni fa divenne famoso nel mondo per la “rivoluzione dello zafferano” caratterizzata dall’uccisione di centinaia di monaci, in prima linea con la popolazione contro i soprusi dei generali al potere, oggi ci si trovi di fronte ad una situazione completamente mutata.
Nell’est del Paese i cosiddetti “guerriglieri della giungla” stanno organizzandosi per dare filo da torcere ai reparti governativi. La guerra civile è in pieno sviluppo: questa guerra poco raccontata ma non per questo meno devastante e drammatica, si è infuocata nel febbraio di tre anni fa quando il Generale Hlaing, capo delle forze armate, ha preso il potere, proprio il giorno di inaugurazione del nuovo Parlamento nazionale. Secondo alcune organizzazioni umanitarie non governative che operano in Birmania, ci sono già stati oltre 50.000 morti a cui vanno aggiunti 2,6 milioni di sfollati in un paese che conta 55 milioni di abitanti.
Molti sono i giovani che scappano dai grandi centri e raggiungono i guerriglieri della giungla, che manifestano con esultanza il loro progetto: “Presto cacceremo via la giunta e riprenderemo il completo possesso dei nostri territori, quello per cui stiamo lottando da decenni”. Anche in questa parte del mondo sarebbe importante che l’ONU e Bruxelles dimostrassero attenzione e partecipazione: non c’è niente di peggio che sottovalutare guerre civili, presuntivamente locali, per ritrovarsi poi in un contesto, già di per sé complesso, che potrebbe innescare “un’altra Sarajevo”.
Azerbaigian
Gli sviluppi dell’occupazione militare da parte dell’Azerbaigian dei territori del Nagorno-Karabakh con la contestuale cacciata degli armeni che occupavano quella zona da secoli, ci segnala due fatti di rilevanza non solo locale. La Francia, da sempre protettrice dell’etnia armena, l’unica cattolica in quel contesto musulmano, ha preso una posizione formale in merito allo scontro armato in essere in quei territori. Il Senato francese ha ribadito formalmente che l’Armenia ha diritto alla sua integrità e ha chiesto l’emanazione di sanzioni economiche a carico degli azeri che hanno occupato illecitamente il territorio armeno violando il diritto internazionale. In particolare, la Francia ha richiesto l’embargo sulle esportazioni di gas e petrolio e cioè della principale fonte di ricchezza dell’Azerbaigian.
Al Senato francese ha risposto ufficialmente il governo di Baku che, come ritorsione, ha intimato a tutte le società francesi, compresa la Total, di lasciare immediatamente il Paese. A fronte di questa situazione l’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa ha deliberato di non ratificare le credenziali per l’ammissione al consenso presentate proprio dalla delegazione dell’Azerbaigian, sempre come ritorsione alla violenta e sistematica persecuzione in corso ai danni degli armeni. Secondo Baku queste pressioni occidentali sarebbero una prova della “attuale insopportabile atmosfera di razzismo e islamofobia che si respira nell’Europa occidentale”.
Un fantastico rovesciamento della realtà per cui coloro che difendono gli armeni, vittime di un’occupazione illegale del loro territorio, si ritrovano sul banco degli imputati, dalla parte del torto e in un certo senso in quella di oppressori dei paesi islamici.
La situazione nel Caucaso ci offre un altro elemento delicato di un contesto internazionale sempre più complesso da capire e da gestire. Sicuramente “qualcuno”, in un momento storico in cui i riflettori delle attenzioni mondiali sono concentrate in Ucraina e a Gaza, “qualcuno”, dicevamo, sta cercando di concretizzare dei colpi di mano, sperando di passare inosservato anche a causa della nostra troppo frequente distrazione… da sonnambuli!
Noi europei dobbiamo continuare a sostenere che tutte le culture e tutte le etnie debbano essere ugualmente accettate e valorizzate, senza abusi o violenze da parte di chicchessia. Dobbiamo evitare di dare l’impressione… più che giustificata, di essere indifferenti rispetto alle stragi che abitualmente si verificano nel mondo, anche per ragioni religiose. Gli azeri hanno compreso questo nostro vulnus e ne stanno approfittando!
Vi abbiamo descritto, seppure in sintesi, tre casi concreti di crisi internazionali che si stanno implementando nel totale silenzio dei paesi occidentali. Salvo qualche giornalista particolarmente attento, nessun media si occupa più di cosa stia succedendo in Georgia, in Birmania o nell’Azerbaigian ai danni degli armeni. Sorge spontaneo un interrogativo: ma cosa ci sta a fare l’ONU se non vigila e interviene proprio in queste situazioni di rischio o di certezza di conflitti militari?
Cosa aspetta il segretario Gutierrez a prendere una posizione formale nei confronti di coloro che stanno violando il diritto internazionale oppure stanno perseguitando minoranze etniche o religiose con tragici eccidi? C’è un dibattito aperto nel mondo sulla reale utilità della carta delle Nazioni Unite in un contesto complesso come quello attuale: questa latitanza dell’ONU non aiuta certo a ribadirne l’utilità ed essenzialità che sicuramente è stata fondamentale per tutto il periodo della guerra fredda.