Giunti a metà di questo concitato 2024 possiamo affermare con una certa tranquillità che le Democrazie abbiano retto bene.
Nell’anno che ha toccato il record di elezioni politiche o amministrative concomitanti in 76 Paesi diversi, il primo semestre si è chiuso, in fondo, senza grandi sconvolgimenti.
Si temevano scenari terrificanti con le Democrazie messe in minoranza dalla impetuosa ondata di Autarchie e/o Populismi di varia natura: per ora, il bilancio è beneaugurante, tutto sommato.
Perché ne parliamo in questa rubrica che cerca di coniugare le complessità della contemporaneità che stiamo vivendo con la Storia, con la s maiuscola?
Perché, e questo dato ogni tanto viene dimenticato oppure sottostimato, le elezioni rappresentano il cosiddetto “sale della Democrazia”.
Il momento in cui un popolo, una comunità di cittadini, esercita il diritto di esprimere il suo voto, la sua preferenza, per un certo partito, per una certa leadership, per un certo modo di interpretare e gestire la Democrazia.
Un momento chiave, insomma, per la tenuta democratica di un Paese.
Certo, alcuni passaggi elettorali (i recenti casi della Russia e dell’Iran ne sono gli esempi più lampanti) sono più apparenti che non sostanziali.
È vero che in quei Paesi formalmente si vota, ma l’elettore è fortemente condizionato e addirittura minacciato nella sua presunta ma non reale libertà di esprimere la sua opinione politica.
Nel contesto mondiale in cui viviamo, per queste ragioni, è molto importante osservare cosa accada negli altri Paesi, per avere sempre il termometro di come stiano vivendo le varie democrazie questo delicatissimo momento storico.
Ormai, nel cosiddetto Villaggio Globale, siamo tutti interconnessi e l’effetto domino di certi risultati elettorali potrebbe assumere una accelerazione impressionante e imprevedibile nella sua propagazione internazionale.
La Storia ci ammonisce (non uso la locuzione “ci insegna” perché siamo sempre stati dei pessimi studenti che hanno ripetuto spesso e volentieri, anche per presunzione e alterigia, gli stessi errori del passato, pur conoscendoli bene!) la Storia, dicevo, ci ammonisce che la Libertà, con la l maiuscola e la Democrazia sempre con la d maiuscola, si conquistano con fatica, attraverso scontri, spargimenti di sangue, guerre civili o rivoluzioni ma poi, si possono perdere improvvisamente, quasi senza accorgersene, solo perché abbiamo sottovalutato certi fenomeni, certi segnali, certi malesseri, insomma, certe braci ancora accese sotto una cenere apparentemente spenta.
Questo 2024, che stiamo vivendo nella complessità e contraddittorietà degli eventi che ci capitano intorno ogni giorno, è un anno importante per i destini del nostro pianeta proprio per le 76 elezioni che hanno impegnato o stanno impegnando oltre 1 miliardo e mezzo di nostri concittadini nel mondo. Il loro risultato condizionerà il nostro futuro… volenti o nolenti.
Tornando, quindi, al sospiro di sollievo iniziale originato da un primo bilancio di questo primo semestre di importanti scadenze elettorali, possiamo aggiungere alcune riflessioni di contorno.
Alcune “pillole” che ci possono aiutare a leggere come si stiano sviluppando gli “umori“ politici in certi Paesi-chiave delle nuove geo-mappe internazionali.
Vediamoli dunque caso per caso in base ai risultati elettorali intervenuti nei mesi scorsi.
Partiamo dal Sudafrica, dove, per la prima volta dal 1994, il partito di Nelson Mandela non ha ottenuto la maggioranza assoluta dei voti in Parlamento. L’African National Congress (ANC), dovrà dar vita ad una coalizione tra il partito dei “neri” e il partito dei “bianchi“. Per la prima volta, dunque, dopo trent’anni, tornano al governo i “bianchi“ ma non quelli che sostenevano l’apartheid ma proprio quelli che già negli anni ‘90 si opponevano al regime autoritario e razzista che governava a Pretoria.
Ha destato ovviamente scalpore il risultato dal partito di Mandela, fermatosi al 40% dei voti, un risultato che obbliga i suoi leader a cercare una mediazione con l’Alleanza Democratica, il partito di centro, di stampo liberale, che rappresenta i voti di una minoranza bianca che crede fortemente nell’integrazione e in uno sviluppo pacifico della coesistenza fra le varie etnie del Paese. L’African National Congress ha sicuramente pagato le conseguenze di un eccesso di corruzione, incompetenza e miopia che ha caratterizzato gli ultimi venticinque anni della storia del Sudafrica, dopo l’abbandono, nel 1999, di Mandela dalla politica. Si apre dunque oggi una fase nuova del Paese, con il grande punto interrogativo relativo alla reazione che avrà l’ex presidente Zuma che, secondo la stampa internazionale, ha adottato il format di Trump, denunciando brogli elettorali, minacciando sommosse popolari nelle strade, con una dura e violenta reazione contro il risultato elettorale emerso dalle urne. Soltanto tre anni fa, ci furono 300 morti causati proprio da scontri tra fazioni nelle strade delle principali città sudafricane.
Ramaphosa, il presidente rieletto grazie alla coalizione negoziata con il leader dei “bianchi“ John Steenhuisen, dovrà dimostrare di essere all’altezza del governo di un Paese che deve risolvere innanzitutto dei gravissimi problemi di ordine pubblico e poi di un’economia che produce ancora troppe e non accettabili disuguaglianze all’interno della cittadinanza. Il dato positivo è costituito dal fatto che nonostante le violenze perpetrate nella storia recente del Paese, da tutte le parti in causa, senza distinzioni, la Democrazia ha retto e il Sudafrica, per ora, verrà guidato da una maggioranza parlamentare voluta e votata dai cittadini.
Un ragionamento simile può essere fatto a proposito della situazione dell’India post elezioni.
Il Primo Ministro Narendra Modi, presentandosi agli elettori come “l’unto del Signore“ è stato ridimensionato e non può più definirsi come… l’uomo del destino. La democrazia più grande del pianeta ha confermato, nonostante le apprensioni della vigilia, di essere una democrazia solida e viva. Modi potrà governare per la terza volta di seguito ma senza la presunzione dell’invincibilità che lo ha accompagnato negli ultimi 10 anni di governo. Come succede nelle democrazie moderne, dovrà confrontarsi con i partner di una coalizione che gli permetterà di avere la maggioranza in Parlamento che da solo non avrebbe più avuto. Insomma, non potrà più fare e disfare a suo piacimento la politica interna e internazionale: dovrà tessere la tela di una continua trattativa con i partner governativi e soprattutto con una opposizione che è stata premiata dal voto elettorale.
Rahul Gandhi, rappresentante del Congress Party, il partito all’opposizione finora schiacciato e umiliato dalla maggioranza, ha potuto manifestare tutta la sua gioia sostenendo che il popolo indiano ha vinto la sua battaglia per difendere la Costituzione. “Il governo di Modi – ha detto Gandhi – ha fatto di tutto per distruggerci. Ci ha chiuso i conti in banca, ci ha fatto imprigionare, ha cercato di annientarci: ma il popolo ha salvato la Costituzione con questo voto. Grazie! “
Adesso bisognerà verificare gli intendimenti del Modi “azzoppato“ che, non dimentichiamolo, è il leader riconosciuto del cosiddetto Sud Globale, quello costituito dai cosiddetti Brics, e cioè i Paesi che non si vogliono allineare da nessuna parte nel confronto tra Stati Uniti e Cina.
Riuscirà Modi a continuare il suo progetto di condurre l’India verso lo status di grande potenza? Questo è l’interrogativo che si pongono tutte le cancellerie del mondo. Il dato rilevante per il futuro del pianeta è che anche una democrazia enorme, complessa e molto conflittuale come quella indiana, abbia retto bene alla prova elettorale: la Democrazia ancora una volta ha resistito alle picconate degli estremisti violenti o agli assalti degli autocrati e dei populisti.
L’ultimo esempio sul quale vale la pena riflettere è quello del Messico, dove in un confronto elettorale esclusivamente “al femminile“, ha vinto Claudia Sheinbaum, con il 60% dei voti. È La prima donna che ricoprirà la carica di presidente nella storia del Paese. La neoeletta, 61 anni, ingegnere ambientale, presenta nel curriculum addirittura un premio Nobel, vinto nel 2007 come membro di un team dell’ONU che aveva studiato proprio la tematica dei cambiamenti climatici.
La “Presidenta” sarà insediata ufficialmente nel prossimo ottobre.
Gli osservatori parlano di una continuità con la precedente Presidenza di Andrés Manuel Lopez Obrador: alcuni menzionano addirittura un rapporto che ricorda quello tra un mentore e un “pupillo”. Obrador è stato un presidente populista di sinistra, stimato da Trump, per evidenti similitudini politiche. Claudia Sheinbaum viene dall’élite borghese e rappresenta l’anima liberal del partito. Nonostante una campagna elettorale sanguinosa con oltre 1200 persone ammazzate, le elezioni si sono tenute sostanzialmente in modo regolare. Ci sono stati scambi di accuse di brogli da ambo le parti, cosa che fa parte della tradizione messicana. Ci sembra, infine, molto significativa per misurare la “temperatura” della Democrazia in Messico, la dichiarazione resa dalla rivale della neo-presidente, la Galvez che, alla conclusione dello scrutinio, ha detto: “Spero che il governo lavori bene perché ne guadagnerà tutto il nostro Paese“. Un riconoscimento leale, costruttivo, sinonimo di un Paese che nonostante dei problemi colossali di ordine pubblico e di eccessivo potere delle bande di narcotrafficanti, incomincia a dare segnali concreti di avere una classe dirigente moderna, rappresentata da donne, in grado di affrontare senza demagogia ma con visione, senso delle istituzioni e non velleitarismo populista, lo sviluppo di un Paese che merita destini migliori di quelli degli ultimi vent’anni.
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Ecco perché i tre esempi che abbiamo citato ci confortano sullo stato di salute delle Democrazie nel mondo, anche in paesi complessi e delicati come quelli che abbiamo citato. Non illudiamoci però: i sistemi democratici vanno continuamente coccolati con cura, amore, attenzione, condotte coerenti e all’insegna della legalità. La storia recente ci dimostra che soprattutto i vincitori di un’elezione incerta con un voto molto contrastato (come quella europea, per esempio) non devono irrigidirsi sulle loro posizioni, chiudendosi in una gestione non aperta al dialogo con le opposizioni. Devono capire e interpretare le ragioni che hanno portato al successo dei partiti che per ora hanno perso ma che un domani, a situazioni immutate… non perderebbero più.
In tutti i Paesi del mondo, e le ultime elezioni che abbiamo citato lo dimostrano, c’è un enorme bisogno che la politica si riavvicini e ritorni a parlare alla gente, decidendo poi di conseguenza il da farsi.
Sottovalutare l’aumento dei consensi dei movimenti populisti o di destra-destra, come si dice oggi, sarebbe un grave errore per i vincitori. Soltanto avendo un filo diretto con la gente, con i suoi bisogni e i suoi malesseri, la politica può tornare ad avere un ruolo fondamentale di difesa e manutenzione della libertà e della democrazia di un Paese.
In passato, infatti, il disordine ha trovato sempre, prima o poi, un architetto che ha imposto un nuovo ordine. Oggi non si vede chi possa ricucire i fili, mentre crescono i timori di una deflagrazione incontrollata. Ha scritto di recente Manlio Graziano, analista di geopolitica e professore alla Sorbona: “O si trova il modo di far sedere tutte le potenze (o almeno le più importanti) attorno ad un tavolo per coordinare ed armonizzare le politiche, oppure si va verso la deflagrazione mondiale. Ma se così fosse tanto varrebbe prepararsi (non si sa come) alla deflagrazione, perché nessuna potenza-grande, media, piccola accetterà mai di “armonizzare“ i propri interessi con quelli degli altri, cioè di subordinare i propri interessi a quelli degli altri, se non vi è costretto con la forza “.
Continuiamo, dunque, a vigilare ma il primo semestre di questo intenso anno elettorale del nostro pianeta ci dà un po’ di speranza: una speranza fondamentale per andare avanti senza cedere all’emotività o alle semplificazioni deleterie.